Introduzione critica di Vittorio Sgarbi per la mostra tenutasi presso la Galleria L'Indicatore di Roma nel 1998
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Non è certo che Adriano Pompa , artista trentenne; viva nel nostro tempo, che si possa cioè definire artista " contemporaneo ". Egli infatti dipinge con inevitabile lentezza, senza ansietà altra che del segno insistito e inseguito con determinazione autolesionistica. E' così autore prevalentemente di opere incompiute, come in attesa di essere perfezionate per necessità di un risultato non mai sodisfacente, stretto fra l'aspirazione dell'opera totale e il mercato che vuole quantità inevitabilmente imperfette. Parimenti, anche la vita di Pompa si è divisa civis romanus, egli abita da qualche tempo a Milano e si muove sulle orme del padre, il grande Gaetano, tra città longobarde alla ricerca di vestigia barbariche che rechino la traccia della grandezza di Roma, tra Pavia e Castelseprio. Non so se oltre al minuscolo studio dove lavora come orafo, come un cesellatore, egli abbia una casa con elettrodomestici, televisori, telefoni, fax, acceleratori del tempo; non so se conosca e frequenti altri artisti e se altri abbia studiato dopo i primi riscopritori del mondo antico tra Quattro e Cinquecento. Egli frequenterebbe volentieri Jacopo Ripanda, Amico Aspertini, Bernardino Parentin e naturalmente, Andrea Mantegna, grandi padani innamorati e perduti dietro le antichità. In Milano vorrebbe incontrare Bramante e il Bergognone, e forse ancora meglio il Butinone, muovendo verso Ferrara saluterebbe Liberale Girolamo da Cremona chiedendo notizie del Cicognara nel frattempo disperso sulle tracce di Antonio da Crevalcore, di Cosmè Tura de Ercole dè Roberti. In Padania ancora un giorno intero lo trascorrerebbe a Cento con Marco Zoppo. Ma Pompa non potrebbe dirsi soddisfatto prima dell'incontro padovano col Mantegna. D'estate Pompa, tra Dalmazia e Marche, non dimenticherebbe Giorgio Schiavone e Nicola di Maestro Antonio di Ancona. In ultimo cercherebbe uno scambio di idee con Carlo Crivelli e Girolamo di Giovanni da Camerino. Oltre questi orizzonti l'intelligenza e la fantasia di Pompa non muovono; non c'è altra contemporaneità. Con questo intendimento sta ininterrottamente nel suo studio, tormentando tele con ori e colori per fermare la memoria di eroi e draghi per un mito che non può finire. Non lancia messaggi, non combatte battaglie non persegue obiettivinon ha altri fini che quelli del puro piacere della pittura, anche a vantaggio di chi lo guarda, per una volta. Forse gli piacerebbe essere osservato mentre lavora, ormai quasi più come artiggiano che come artista, da Apollo, confondendo gli occhi degli uomini con quelli degli dei. Per questo non attende, non spera, non chiede giudizio.L'esrcizio del dipingere è fine a se stesso, è un vizio, è un premio, è una necessità. Intanto i quadri appaiono insoddisfatti, appaiono inquieti, animati come da una incertezza del destino. Vivi, bensì ma senza ragione, come se nulla li legase alla condizione umana. Quando Pompa inizia a dipingere, riproducendo il gene paterno, intorno a lui nonc'è nulla, neanche per sbaglio, per contaminazione, lo specchio dei suoi dipinti rispecchia ciò che l'occhio vede, comincia li il suo sogno della pittura, un trasferimento non solo del pensiero ma del corpo nell'unico tempo al quale Pompa appartiene. Ed ecco allora fiorire la tela in infinite tebaidi, ecco colline e boschi, sempre lontani, sempre misteriosi, ecco eroiche apparizioni, ecco guerrieri, ecco ovunque, anche per absentia, un fulgore d'oro, diffuso sui pigmenti come non si era più visto dai tempi del Pisanello. Oro graffito anche, e disegnato per evocare immagini senza tempo. Poi Pompa si ferma, esce dallo studio, rientra nel rumore della città alle sue spalle, lo aspettano . |
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